Il latte e le rose…
Devozione e cibi rituali nelle festività tra maggio e giugno
L’ultimo scorcio di primavera, dopo il primo plenilunio stagionale dalla domenica di Pasqua, recava l’eco devoto e celeste di questa festività (nel calendario liturgico il tempo pasquale durava per i successivi cinquanta giorni) ma anche l’incombenza terrestre della dispensa. La tradizionale crescia o pizza di formaggio, autentico cibo identitario delle terre marchigiane (ed umbre) erano preparate nelle famiglie contadine da donne riunite al lavoro per garantirne quantità notevoli: il consumo si protraeva per settimane, magari anche in ricette elaborate di zuppe, come l’antico “pan bollito”. Sulla lunga vita di queste focacce rituali non mancano memorie e documentazioni: le note manoscritte (XIX sec.) di dispensa e cucina del monastero di Santa Maria Maddalena a Serra de’ Conti attestano come le clarisse preparassero anche un’analoga crescia di Pentecoste (festività che cade a cinquanta giorni dalla Pasqua), similmente impastata con il cacio. Ancora negli anni ’70 del secolo scorso la studiosa Nicla Mazzara Morresi riferiva di un “vecchio pasticciere jesino”, che “preparava la pizza col formaggio tra l’Epifania e l’Ascensione, allorché la ricotta di capra ed il pecorino fresco sono nel meglio della loro stagione”. Del resto le tradizioni popolari sulla festività dell’Ascensione raccontano uno stretto legame tra questa solennità ed il formaggio: le relazioni dell’Inchiesta Agraria Napoleonica ad inizio ‘800 riportano come nelle Marche in questa giornata i contadini fossero soliti fare un formaggio speciale, che avrebbe avuto valenza augurale, al punto da essere sbriciolato nei campi come auspicio di buon raccolto, oppure vergato con una croce. Si conservava come panacea, in particolare quale balsamo per malattie intestinali. Anche al confine umbro, a Castelluccio, il cacio confezionato in questo giorno viene marchiato con la data e donato a persone di riguardo, con le quali sdebitarsi. Il legame tra l’arte casearia e questa ricorrenza era disciplinato da una serie di credenze popolari che riguardavano appunto il latte munto nel giorno dell’Ascensione, ricorrenza mobile, celebrata a quaranta giorni dalla Pasqua (o la domenica successiva), quando Gesù Cristo già risorto prese congedo dagli apostoli, salendo in Alto. Infatti si riteneva che il momento stesso del transito di Cristo attraverso l’aria fosse un attimo di magica sospensione della natura. In quel volo di Gesù, per tornare dalla terra al cielo, un afflato miracoloso condizionava le erbe germoglianti (quella cosiddetta “dell’invidia” del Monte Ascensione ad Ascoli veniva raccolta dai pellegrini), ottimale foraggio benedetto per il bestiame, ed anche il latte stillato dal bestiame era come graziato. In tutta Italia diverse leggende raccontano di pastori puniti per la loro avarizia, poiché rifiutatisi nel giorno dell’Ascensione di donare a bisognosi il contenuto dei loro secchi di mungitura. Ecco perché ovunque c’è l’uso da parte di pastori e contadini di non fare commercio con il latte di questa giornata, ma di donarlo, trasformandolo nel cibo eletto di questo dì: appena rappreso, scolato e raccolto in un cestello di giunchi (e per questo chiamato “giuncata”) era servito variamente (con zucchero, o anche buccia di limone, o caffè), e rappresentava ad esempio una pietanza rituale dei pastori di Muccia in questa celebrazione solenne del quarantesimo giorno dopo la Pasqua. La ritualità conviviale per l’Ascensione annovera solo qualche consuetudine alimentare ormai in oblio (ad esempio a Cesi di Serravalle una verdura particolare chiamata “spizzoli”, ed una ciambella dolce, la “rocchiata”, a forma di cercine), o memorie di processioni (per quella “al Glorioso” di San Severino le bancarelle vendevano lupini e “limoncelle”). Ma la codificazione gastronomica marchigiana per questa periodo passa davvero per il latte e le uova. Infatti anche gli uccelli, in quanto creature dell’aria, erano considerati coinvolti dall’atmosfera soprannaturale dell’Ascensione, non solo nelle loro traiettorie di volo decisamente inibite, ma anche nella deposizione delle uova. Un proverbio tradizionale recita: “il giorno dell’Ascensione non si muove neanche il pulcino nell’uovo”; gli anziani ricordavano questa ricorrenza quale “festa grande, neanche gli uccelli uscivano dal nido”; gli studi rammentano le aspettative di chi “metteva a covare le chiocce, così che i pulcini nascevano dopo tre settimane il giorno dell’ascenzione”, ed in questa pratica propiziatoria c’è l’eco di una convinzione diffusa in tutto il territorio italiano, quello del potere magico dell’uovo dell’Ascensione, dalle infinite proprietà taumaturgiche (in particolare se deposto da una gallina nera).
Ed appunto le uova, assieme al latte, caratterizzano un dolce rituale delle nostre terre, attestato per il tempo pasquale e per il Corpus Domini, l’ultima festività religiosa che dalla tarda primavera conduce al solstizio d’estate. Questa specialità si chiama “lattarolo”, e sebbene anche recentemente la guida del Touring Club sulle Marche lo nomini tra i dolci regionali, è ora da molti dimenticato. Anticamente assemblava tre provviste alimentari basilari di differente origine animale, ossia il latte, le uova ed il miele, che nelle varianti più rustiche ed antiche era l’edulcorante impiegato (sostituito in tempi recenti dallo zucchero, risorsa più rara, solo acquistabile). Poteva essere recato dai contadini ai padroni in una ciotola di terracotta o in un involucro commestibile di sfoglia “matta” (semplicemente acqua e farina), come contemplato e prescritto addirittura dall’elenco degli obblighi di regalia nei contratti agrari; i mezzadri lo portavano ai proprietari adagiato su un letto di foglie di alloro, come facevano gli antichi romani nel portare le libagioni agli altari. Oltre che per queste festività era regalato ai signori anche in occasione delle nozze contadine, che spesso si celebravano nel mese di maggio, appena prima del grande lavoro agricolo della mietitura e trebbiatura del grano.
Nel bimestre di maggio e giugno, tra l’Ascensione ed il Corpus Domini, a cinquanta giorni dalla data della Pasqua si celebra la già citata Pentecoste, solennità che ricorda la discesa dello Spirito Santo, sotto forma di pioggia di fiammelle verso i discepoli riuniti in preghiera. Viene chiamata anche “Pasqua rosa” o “Pasqua rosata”, perché nel Medioevo per rievocare ritualmente l’episodio nelle chiese si calavano dall’alto delle navate sui fedeli piogge suggestive di petali di rosa a suggerire le piccole lingue di fuoco illuminate dallo Spirito Santo. Non a caso nell’800 i Padri Filippini di Ascoli Piceno osservavano nell’ “Instruzzione intorno al refettorio” un accorgimento particolare per imbandire le mense della cosiddetta “Pasqua di rosa” (denominazione che si trova ancora nel ricettario conosciutissimo del 1891 di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene): si suggerisce infatti di mettere nel piatto di ciascuno una ramina di rosa fresca benedetta, e se ve ne sono di non benedette “con queste ci si potrebbe infiorare con garbo la tavola come nel dì di Pasqua di Resurrezione”. Va ricordato come anticamente l’acqua di rose era ingrediente pregiato nell’arte dolciaria: se nel comune bacino adriatico si ha traccia di una “rosada”, budino di latte servito in un convento veneziano settecentesco per l’Ascensione, sul fronte tirrenico a Napoli per la Pentecoste si ricorda la torta di rose e ricotta delle monache benedettine del convento di San Gregorio Armeno a Napoli, decorata sopra con petali. Il fiore regale, evocato dalla letteratura profana e cortese come da quella mistica e monastica, è ispiratore di un ciclo di preghiere dedicate alla Madonna, a cui la devozione popolare dedica ugualmente il mese di maggio. Tanti i culti dedicati alla Vergine, tra cui l’immagine di riferimento per puerpere e mamme in difficoltà, la Madonna del Latte, a cui ci si rivolgeva per avere sempre nutrimento per i propri piccoli, anche in epoche di fame e carestie. E le edicole si ornavano di rose.
di Tommaso Lucchetti