La vita in filanda
“La filanda è ‘na galera…
…chi la prova nun ce resta / tira e molla, molla e tira / la filanda è ‘na galera” così inizia uno dei canti delle nostre filandaie riproposto da La Macina. La filanda fu, in effetti, una galera per le condizioni in cui molte delle nostre antenate dovettero lavorare ma consentì loro anche di aggregarsi, di condividere gioie, dolori, sogni, rassegnazione; di trovare una loro indipendenza, di uscire dal ristretto ambito domestico e riconoscere di avere dei diritti. Per l’economia del nostro territorio rappresentò un prototipo delle moderne industrie, raccogliendo e organizzando centinaia di lavoratrici.
In Italia la bachicoltura e la gelsicoltura erano diffuse nelle campagne marchigiane già nel Duecento, ma solo nel Settecento queste attività, e la filatura della seta, divennero importanti per l’economia del territorio tanto che lo Stato Pontificio assegnò premi per incoraggiare i contadini a espandere le piantagioni di gelso. In questo periodo tutto il processo, che iniziava con la coltivazione del gelso, proseguiva con l’allevamento del baco e terminava la trattura della seta, si svolgeva nell’abitazione contadina. A occuparsene erano prevalentemente le donne della famiglia che tra aprile e giugno predisponevano le bigattiere (solitamente in soffitta) dove i bachi crescevano alimentati con le foglie di gelso, le pulivano e quando il bozzolo era maturo, prima che fosse bucato della farfalla, lo bollivano e ne ricavavano il filato. Nella nostra regione, si sa, l’industrializzazione arrivò in ritardo, così anche per la lavorazione della seta si deve attendere i primi decenni dell’Ottocento affinché i processi di meccanizzazione e organizzazione produttiva fossero spostati nelle filande.
Nel corso dell’Ottocento sorsero numerosi opifici in tutta la regione con concentrazioni maggiori nei centri più popolosi e in quelli con maggiore disponibilità di gelsi e bozzoli. In particolare i due centri più importanti dell’Italia centrale per la produzione serica furono Jesi e Osimo; nei primi anni del Novecento si contavano a Jesi 12 filande che occupavano più di mille addetti. Osimo nello stesso periodo ne ospitava 11 con quasi settecento lavoratori. Altri importanti centri serici furono Cupramontana, Corinaldo, Falconara, Fossombrone, Pesaro, Tolentino, Caldarola, Recanati e Camerino. Nella zona dell’ascolano, nonostante la presenza di filande medio-grandi ad Ascoli Piceno, Grottammare, Fermo e Offida, il settore trainante rimase quello della produzione dei semi-bachi rivenduti ai contadini delle Marche settentrionali.
Tutte le filande avevano una medesima struttura e organizzazione interna: nella sala principale le bacinelle con l’acqua bollente, alimentata prima dal fuoco vivo poi dal vapore, erano disposte su due file. A ogni bacinella era assegnata una o più operaie: il primo passaggio, quello della scopinatura era solitamente eseguito da bambine, di nove, dieci anni, che, dopo aver soffiato nel bozzolo con le loro piccole mani, estraevano il capo del filo; lo passavano poi alla sottiera che lo avvolgeva nell’aspo posto sopra la bacinella. Altre donne, dette giuntine, saldavano le rotture di filo, altre, le cernitrici facevano una cernita dei bozzoli in base alla dimensione del futuro filato. A controllare il tutto erano le maestre e le giratore così chiamate perché andavano su e giù per lo stanzone controllando il lavoro. Gli unici lavoratori di sesso maschile comparvero con il passaggio dall’alimentazione a fuoco a quella a vapore quando si resero necessari almeno un fuochista e un manutentore.
Le condizioni di lavoro erano pessime: molte donne dovevano camminare per ore la mattina per giungere alla filanda, fare altrettanto per tornare a casa e occuparsi della famiglia. Le più giovani e le bambine invece si fermavano a dormire in una stanza adiacente l’opificio e tornavano a casa solo la domenica. Il lavoro era lungo e faticoso; le sottiere con le mani sempre immerse nell’acqua bollente soffrivano di scottature, vesciche, artriti. L’ambiente chiuso e denso di vapore fece ammalare molte lavoratrici di tubercolosi e pleurite. La giornata media di lavoro era di dieci ore, la paga consentiva a mala pena la sopravvivenza e gli errori e le sviste commessi nel lavoro comportavano decurtazioni del già magro salario. Ciò portò, agli inizi del Novecento, alla nascita di leghe che unì le filatrici dei principali centri serici; Gemma Perchi a Jesi riuscì a protrarre uno sciopero di 45 giorni. Altre sollevazioni e marce interessarono Osimo, Fossombrone, Fano e consentirono di raggiungere miglioramenti salariali, riduzione dell’orario a otto ore e migliori condizioni di lavoro. C’erano anche momenti di allegria. Il canto era infatti permesso e spesso si poteva sentire fuori dalla filanda cantare per ore quelli che ora sono detti canti da filanda: canzoni d’amore, canti giocosi ricchi di doppi sensi e filastrocche. In molti opifici al raggiungimento delle cento giornate lavorative si facevano feste con vivande offerte dai proprietari, visite al santuario di Loreto o scampagnate in carrozza o pullman organizzate dai filandieri.
Durante la seconda guerra mondiale molte filande dovettero servire il Reich producendo filati per paracaduti, poi, nel giro di pochi anni molte cessarono di esistere con il sopravvento dei più economici filati sintetici e artificiali.
Segni della presenza di filande rimangono nel tessuto urbano di molte città, ma gli edifici, riconvertiti, non lasciano tracce del passato: dalle loro mura non passa il canto delle filandaie e le voci delle grandi donne, come considero tutti quelli che al di là dei risultati faticano ogni giorno allo stremo, che vi hanno lavorato, non giungono più ogni mattina. Eppure da loro abbiamo imparato tanto, abbiamo imparato a essere donne, lavoratrici e mamme!
di S. Brunori