Andrea Molinari, professione chitarrista
Andrea Molinari ci racconta la sua vita a note di jazz
Jesino di nascita, classe 1986, Andrea Molinari si è diplomato con lode all’Università della Musica a Roma e sempre a Roma si è laureato con lode al Conservatorio Santa Cecilia, perfezionando poi i suoi studi presso il Royal Conservatory di Bruxelles. Dopo aver ottenuto nel corso degli anni diversi riconoscimenti per le sue capacità artistiche (ricordiamo, uno tra gli altri, il premio “Jimmy Woode” come miglior chitarrista conseguito nel 2010 con in giuria dei mostri sacri del jazz come Eddie Gomez, Antonio Sanchez, Kurt Rosenwinkel e Rick Margitza), oggi ci presenta il suo ultimo album, “51” e ci racconta il suo percorso artistico e professionale.
Qual è stato il tuo percorso di formazione?
La mia famiglia ha giocato un ruolo fondamentale: mia madre da piccolissimo mi portava a delle guide all’ascolto a Villa Borgognoni a Jesi e mio padre suonava la chitarra. A casa e in macchina si ascoltava sempre musica. Quindi ho iniziato a prendere lezioni alla scuola Pergolesi prima con Sergio Cardinali poi, passando dalla classica alla chitarra elettrica, con Andrea Conti. Da adolescente ero patito per la musica rock. Subito dopo la maturità mi sono trasferito a Roma e all’Università della Musica sono stato folgorato dal jazz. Il jazz rappresentava per me una sfida, una montagna da provare a scalare così da riuscire ad ammirare nuovi orizzonti, nuove prospettive. Più mi addentravo in questa musica così complessa, così distante dal mio background, più mi appassionavo, iniziando a comprendere la libertà che sprigionava da essa. Dopo essermi diplomato all’Università della Musica ho frequentato il Conservatorio Santa Cecilia dove ho avuto la fortuna di conoscere personalità molto influenti del panorama jazzistico italiano: il capo-dipartimento contrabbassista e violoncellista Paolo Damiani, il batterista Roberto Gatto, con il quale ancora ricordiamo i laboratori di musica d’insieme che coordinava, il pianista Danilo Rea, solo per citarne alcuni. Anche il soggiorno a Bruxelles, così come due viaggi-studio a New York, mi hanno dato l’opportunità di ascoltare e confrontarmi con alcune delle figure più rappresentative della scena jazz internazionale. Da lì il jazz è stato tutto per me, la mia più grande ossessione. Ho realizzato due album da leader: “L’era dell’Acquario” con l’altosassofonista Logan Richardson e “51” edito per la prestigiosa etichetta statunitense Ropeadope Records e candidato in quattro categorie ai Grammy Awards. Ho avuto la fortuna di collaborare dal vivo e in studio con gli stessi Paolo Damiani e Roberto Gatto, ma anche con il grande Giovanni Tommaso (contrabbassista, compositore, arrangiatore e fondatore della storica band Perigeo), il batterista Bruno Biriaco, anch’egli membro del Perigeo, la cantante Ada Montellanico e il pianista americano Greg Burk. Tutte le personalità che ho incontrato nel cammino fino ad oggi sono state decisive per la mia crescita. Continuo a far tesoro di tutte le esperienze, di tutte le chiacchierate, di tutti gli aneddoti. Veder lavorare musicisti di questo calibro, vedere la dedizione e il rispetto che hanno per la musica ti spinge a fare sempre il massimo, a tenderti il più possibile al limite, provando per lo meno a sfiorarlo, consapevole che c’è ancora tanto da imparare.
“51” è il titolo del tuo ultimo album. Da quali sensazioni, pensieri, immagini è nato? Ce ne parli?
Tutto nasce dal fascino che suscitano in me la numerologia e l’esoterismo, filo rosso che lega i titoli e i pensieri inclusi nei miei due album da leader: “51” sono i gradi di inclinazione della Piramide di Cheope, la più antica delle sette meraviglie del mondo, mentre “L’era dell’Acquario” è l’era moderna secondo i Maya. Una sorta di culto per qualcosa che unisce il passato al moderno, ispirato ad una concezione attuale del jazz in cui la conoscenza della tradizione funge da supporto ad un linguaggio di sintesi. Cerco inoltre di privilegiare la forma canzone e di prestare particolare attenzione alla melodia, alla contabilità dei brani. In “51” le nove tracce originali sono impreziosite dalla presenza della cantante Camilla Battaglia e del trombettista Alessandro Presti, oltre alla sezione ritmica costituita da Enrico Zanisi al piano, Rhodes ai synth, Matteo Bortone al contrabbasso e basso elettrico ed Enrico Morello alla batteria: alcuni dei musicisti che stanno dando lustro al jazz italiano oggi.
Quali le differenze con il primo lavoro, “L’era dell’Acquario”?
Ogni album è un pezzo di me, un’istantanea sulla vita, una necessità di raccontare storie ed esprimere emozioni attraverso la musica. A differenza di “51” che spazia ed esplora vari generi, ovviamente il jazz, ma include anche spunti provenienti dal rock, soul, R&B, dalla musica ambient, alla classica, fino ad arrivare alla musica elettronica, “L’era dell’Acquario” è un lavoro più “autenticamente” jazz, se vogliamo più improvvisato e meno arrangiato rispetto al nuovo album. Entrambi esprimono il mio io ma sotto due differenti chiavi di lettura. Ne “L’era dell’Acquario” oltre ai fantastici Domenico Sanna al piano e Rhodes, Luca Fattorini al contrabbasso e Marco Valeri alla batteria, ho avuto l’onore di collaborare con il sassofonista statunitense Logan Richardson: vera e propria icona del jazz contemporaneo, musicista incredibile e persona dalla sensibilità e spiritualità inarrivabile.
Come nascono le melodie, i pezzi? Da quali suggestioni scaturiscono? Qual è la tua giornata tipo quando si tratta di comporre?
La scrittura è un’esigenza involontaria, incontrollata. Non mi sono mai forzato di comporre, è un processo da coltivare, da sviluppare quotidianamente. Arriva il momento in cui percepisci che qualcosa sta nascendo, all’improvviso, e con stupore capisci che stai creando: è come se avvenisse una spersonalizzazione e un altro diverso da me stesse scrivendo mentre io mi osservo dal di fuori, quasi commosso. L’atto creativo è mistero ed emozione, e quando ciò accade tutto è magico.
Nel corso della tua carriera di chitarrista jazz hai anche spaziato in altri ambiti, come quello dell’insegnamento. Da tre anni sei docente di chitarra jazz presso il Conservatorio di Lecce. Ci parli di questa esperienza?
Mi piace molto insegnare, mi è sempre piaciuto: sin dai tempi del tirocinio al Conservatorio Santa Cecilia, passando per due istituti romani, prima per la Scuola Popolare di Musica “Arvalia”, dove ho insegnato per diversi anni, e in seguito ai corsi preaccademici di chitarra jazz presso la “Civica Scuola delle Arti”, fino ad accettare l’incarico propostomi dal Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce. Insegnare in Conservatorio è un ruolo molto stimolante, è come rispecchiarsi in sé stessi alcuni anni dopo: ragazzi pieni di sogni, motivati, che intraprendono il tuo stesso percorso di vita, e proprio per questo è un incarico di grande responsabilità. Io cerco di viverlo come fossi l’insegnate di me stesso, mettendoci tutta la generosità e la passione che ho, tentando di istaurare un rapporto di rispetto e fiducia con gli allievi, perché il processo di apprendimento è reciproco: il docente trasmette semplicemente degli input, indica una strada da percorrere e allo stesso tempo cresce con gli studenti, continuamente.
Quali sono i tuoi modelli di riferimento? Ci sono artisti a cui ti sei ispirato nei tuoi lavori, nel tuo modo di fare musica?
Ce ne sono moltissimi, ovviamente l’ascolto dei grandi maestri: da Pergolesi a John Coltrane, fino alle opere di Leopardi, Escher, Sergio Leone: l’arte in generale è una continua fonte di ispirazione. Senza dimenticare poi la natura. La creatività è la capacità di collegare le esperienze vissute e sintetizzarle in nuove cose.
Ti sei esibito in alcuni dei più importanti Festival di Jazz in Italia e hai suonato anche in Europa, Asia e negli Stati Uniti, collaborando con musicisti conosciuti in tutto il mondo. Quale ricordo serbi con maggior intensità di queste esperienze?
Era una sera di luglio del 2014, suonavo con il mio gruppo con ospite Logan Richardson al Gregory’s Jazz Club, club storico del jazz romano che si trova in zona Piazza di Spagna. La stessa sera a Roma suonava anche il quintetto del trombettista americano Roy Hargrove. Non appena terminato il loro concerto vennero al Gregory’s ad ascoltarci. Subito dopo il bis – non ci eravamo nemmeno accorti che Roy e la sua band erano in sala – vediamo il trombettista camminare verso di noi con la tromba in mano: “Ragazzi, suoniamo un blues” e inizia a suonare. Roy Hargrove era già malato da tempo, scomparirà pochi anni dopo nel 2018 a soli quarantanove anni, ma sebbene fosse una star mondiale, vincitore di due Grammy Awards, la sua voglia di musica era instancabile. Quell’incontro rimarrà sicuramente tra le esperienze indimenticabili.