AgriCultura
Lo chiamavano Il Campo della Fiera. Ogni mercoledì, fin dalle prime luci dell’alba, da tutto il territorio intorno a Macerata gli allevatori convergevano davanti ai suoi cancelli con camioncini e furgoni; dopo l’apertura sistemavano vitelli, mucche, tori e vitelloni sotto le pensiline e maiali negli stalletti. Tutto intorno, anche nella piazzetta antistante, si affollavano venditori di accessori e attrezzi agricoli, di piantine e di sementi. I sensali sancivano con gran strette di mano il passaggio delle bestie dagli allevatori ai compratori, che poi le avviavano al loro triste destino verso il mattatoio, pochi chilometri più in là sulla strada per Villa Potenza. Al vociare della folla si sovrapponevano le strida dei suini, i muggiti profondi dei tori e delle mucche, il grido strozzato dei vitelloni, che la castrazione aveva privato anche della voce, e i richiami degli imbonitori.
Di tutto questo, oramai, non è rimasto più nulla: ciò che resta del Campo della Fiera, già in parte trasformato in terminal per gli autobus, è destinato a diventare un centro residenziale; e la piazzetta antistante non vede più brulicare, il mercoledì, allevatori, sensali, compratori e agricoltori.
Già, gli agricoltori: oggi li chiamiamo così. Ma per secoli, con una dichiarata intenzione denigratoria, essi non sono stati che contadini, ossia gente del contado, della campagna; da contrapporre ai cittadini, che si sentivano in diritto di guardarli dall’alto in basso senza curarsi di celare il compatito disprezzo che provavano nei loro confronti. Nel dialetto locale erano li cundadì. Ed erano per definizione ignoranti, goffi, segnati dallo stigma di un mondo in cui la terra era una condanna e lavorarla una maledizione, la maledizione di Adamo:
Maledetto sia il suolo per causa tua! Con fatica ne trarrai nutrimento per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, e dovrai mangiare l’erba della campagna. Con il sudore della tua faccia mangerai pane; finché tornerai nel suolo, perché da esso sei stato tratto, perché polvere tu sei e alla polvere ritornerai!
Per lo più affittuari o mezzadri, e quindi condannati non solo a sudare sulla terra ma per giunta a sudare su terra altrui, e a non tenersi che una parte del frutto delle loro fatiche, i contadini si dibattevano in ristrettezze economiche che si riflettevano poi sulla modestia della loro apertura mentale. Non solo nelle Marche, naturalmente, e nemmeno nella sola Italia. Ben rappresentato dal mondo della letteratura – dalla Russia di Puškin, Čhechov e Gogol al Sud oltre Eboli di Carlo Levi, dai disperati dell’America di John Steinbeck ai sospettosi e cupi personaggi de Il Castello di Franz Kafka – forte dello stigma biblico e al netto delle visioni dolciastre e leziose delle arcadie, l’immaginario collettivo ha sempre identificato il contadino con un individuo ignorante, sospettoso e gretto; se non era ottuso, l’unica virtù che gli venisse riconosciuta era la furbizia, la virtù dei ladri.
Poi vennero il secondo dopoguerra, il miracolo economico, il boom industriale, i mitici anni ‘60. In quei decenni, il sogno di tutti i figli della terra è stato l’affrancamento da una servitù della gleba che era nei fatti, se non nei codici, verso le fabbriche: grandi concentramenti di industrie al nord, piccole e pullulanti imprese, del mobile o della calzatura, qui dalle nostre parti; e fu la fuga dalle campagne. I figli di quei fuggiaschi sono fuggiti a loro volta verso altri sogni: avevano studiato, si erano diplomati e volevano sostituire le tute blu dei genitori, ex contadini ora operai, con le giacche e le cravatte, o i tailleur, dei cassieri nelle banche e delle segretarie negli uffici.
La rivoluzione industriale, però, modificava anche la vita nei campi. Ai buoi e ai basti si sostituivano i trattori, spinti da grandi ruote nelle piane, da cingoli sferraglianti su per le colline. Armi di siffatti guerrieri, gli aratri scendevano ora in profondità a violare la durezza della terra; sacchi pieni di polveri e granuli chimici si sostituivano ai letami che una volta ingrassavano i solchi; misteriosi liquidi nebulizzati promettevano lo sterminio di insetti e malanni delle piante; nuove sementi permettevano raccolti doviziosi; mostruose macchine tuttofare, a giugno e luglio, percorrevano i campi e falciavano, trebbiavano, separavano grani da pule e affastellavano piramidi e cubi di paglia: niente più mietitori a cuocersi il collo al sole, chini sulle spighe.
Anche nelle stalle tutto era cambiato: finiva il tempo dei secchi sotto le mammelle delle vacche, e delle levatacce prima dell’alba per abbeverare e nutrire le bestie. Ampi capannoni luminosi pieni di mungitrici automatiche, di tapis-roulant e di lavaggi meccanizzati sostituivano gli angusti e bui pianoterra, dalle pareti scrostate piene di ragnatele e dai pavimenti coperti di letame secco, nelle masserie.
Le case coloniche si ristrutturavano, si ripulivano, si abbellivano: non più oche starnazzanti e galline razzolanti su aie sudice e fangose né pulciosi cani da pagliaio a vagolare tra mucchi di detriti e rifiuti. Perfino i vecchi orticelli venivano rimpiazzati da serre, climatizzate e attrezzate con tanto di sistemi d’irrigazione automatica.
Il lavoro dei campi si faceva sempre meno rude e sempre più meccanico e organizzato. La produzione aumentava, il tenore di vita migliorava, i tempi delle fatiche immani e dei raccolti grami s’allontanavano fino a sopravvivere solo nei ricordi e nei rimbrotti dei vecchi.
Al contadino, però, restavano appiccicati le etichette, gli epiteti e gli sberleffi di sempre; per definizione, l’inetto e l’incapace dovevano lavorare nei campi: quelle dell’artista senza talento, dello scrittore noioso e del cantante stonato erano braccia sottratte all’agricoltura.
Ma le cose, lentamente, hanno cominciato a cambiare: a cominciare dal linguaggio. Sull’onda di un ricorso capillare, per quanto spesso ipocrita, al politically correct, che ha trasformato l’handicappato in diversamente abile e lo spazzino in operatore ecologico, l’uso dell’epiteto di contadino è scemato e al suo posto si è via via rafforzato il più gratificante e dignitoso appellativo di agricoltore. Non si è trattato, almeno in questo caso, soltanto di maquillage linguistico. È proprio la figura di chi vive in campagna che nell’immaginario collettivo è andata trasformandosi, all’interno di un ripensamento generale della visione stessa della vita, dell’uomo e della donna e del loro rapportarsi con la società.
Ci sono stati flussi e riflussi, ubriacature di impegno politico seguite da fughe nel privato; inurbamenti di massa, ottimistica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive; ci si è intruppati in folle anonime all’inseguimento dei nuovi miti imposti dal dio Progresso; si è creduto che fosse bene cancellare, dalla memoria e dal territorio, le tracce del passato e delle sue tradizioni.
Ma la bolla di sapone della crescita perenne è scoppiata, e le fantasmagorie iridescenti di illusioni si sono dissolte lasciando spazio alla presa di coscienza della necessità di un recupero: di valori, prima di tutto; e poi di tradizioni, e di ricordi; e di odori, colori, sapori.
Tanti, fra i nipoti dei contadini diventati operai, i cui figli avevano indossato con orgoglio le giacche, le cravatte e i tailleur degli uffici pieni di luci al neon, di efficienza, di aria condizionata e di straniamento, si sono magari laureati ma non hanno voluto proseguire sulla strada tracciata dai nonni e dai genitori. Il mondo che per loro era stato costruito, organizzato, levigato e programmato, si rivelava bugiardo: non manteneva le promesse, chiedeva tutto e in cambio non offriva che briciole. E poi, dietro i lustrini e le paillettes, c’erano l’inquinamento, la cementificazione, le polveri sottili, i dubbi sulla qualità degli alimenti…
E allora è successo che il loro futuro, questi giovani, sono andati a cercarselo guardando verso il passato: proprio verso quella terra dalla quale i loro nonni erano fuggiti.
Non solo: ad essa si sono rivolti con uno sguardo diverso. Hanno rifiutato l’idea di considerarla come terra di conquista, da sfruttare per strapparle tutto ciò che poteva dare irrorandola con veleni, concimandola con altri veleni, costringendola alle monoculture: in altri termini violentandola. Hanno preferito rivolgersi a lei come a una madre, che nutre i suoi figli e in cambio ne riceve amore.
Vecchie sementi e antichi vitigni e varietà di frutta sono stati recuperati; sapori dimenticati sono stati riscoperti; piante e aromi selvatici sono stati rivalutati e antiche tradizioni sono state ritrovate, senza per questo assumere posizioni di totale e pregiudizievole rifiuto di ciò che di positivo la scienza e la tecnica hanno portato nel mondo dell’agricoltura.
Desiderosi di appartenere alla terra piuttosto che considerarsene padroni, i nuovi agricoltori hanno portato nelle campagne il dono migliore che hanno ricevuto dai loro genitori e nonni: quello della cultura. Grazie a questo concime, immateriale quanto fecondo, il loro lavoro è ricco non solo di risultati economici e pratici, ma anche, se non soprattutto, di dignità e soddisfazione.
Sono nati agriturismi, allevamenti, aziende agricole, nei quali la priorità è stata data al rispetto della terra ed allo sforzo di stabilire con lei un dialogo senza più costringerla, anche a costo di brutalizzarla e insterilirla, a dare tutto ciò che poteva. Aziende nelle quali la gioventù, prima che anagrafica, è nello spirito, nell’entusiasmo e nella certezza dei loro creatori di aver fatto la cosa giusta.
E lo si vede, anche: perché la terra, prima immalinconita e inaridita, grazie a questi progetti è tornata a vivere.
Come oasi, contro il sempre ridente fondale dei monti azzurri, sulle morbide colline marchigiane, fra i campi di girasoli, di granturco e di frumento dell’agricoltura tradizionale, a circondare antiche case coloniche riadattate ma non snaturate sono così spuntate isolette di boschetti d’alberi, da frutto o anche solo da ombra, sotto i quali, dentro aiole di terra soffice che ha dimenticato la violenza dei mezzi meccanici, mani amorevoli carezzano ortaggi, colgono erbe, irrorano bordure.
Grata, la terra ricompensa generosa il lavoro dei suoi nuovi figli, perché la terra è sincera e ripaga a usura chi le si accosta con rispetto, impegno, generosità e amore.
di Giuseppe Riccardo Festa