Cornucopia marchigiana: memorie di frutta nell’immaginario
Secondo il mito la cornucopia (letteralmente “corno dell’abbondanza”) era d’appartenuto o alla capra Amaltea, nutrice con il suo latte il piccolo Giove, o al fiume Acheloo dominato da Ercole, e riempito di fiori e frutta come emblema della fertilità della sua vallata. Nel tempo questo carico traboccante di pomi lussureggianti, spighe e corolle è stato sempre emblema dell’abbondanza, della prodigalità, di un’agricoltura fiorente e rassicurante come terra madre benigna e fortunata. Le Marche sono sempre state considerate un’immaginaria cornucopia di frutta rigogliosa
Già gli autori latini parlavano delle regione Picena come di un frutteto ideale, ad esempio Strabone, per il quale questo territorio “somministra tutti i comodi della vita, ma si distingue più per la copia degli alberi e dei frutti”; i pomi di queste terre, in particolare pere e mele, hanno meritato elogi e citazioni di poeti classici come Marziale e Giovenale.
Dopo l’Antichità anche nel Rinascimento i viaggiatori in transito lungo la Regione rimasero estasiati dal paesaggio coltivato, un giardino ricamato che affiancava alle colture multicolori orizzontali dei campi gli intrecci verticali di rami svettanti verso il cielo, carichi di fiori in primavera e di frutti nelle stagioni successive.
Ad esempio il frate domenicano bolognese Leandro Alberti, nella sua Descrittione di tutta Italia, stampata nel 1550, sottolinea la bellezza ed il senso di tranquillità profuso alla vista dai paesaggi delle vallate ornate di pomi: ad esempio sul “castello” di San Benedetto scrive di un “paese molto dilettevole ornato di belle vigne, e di fruttiferi alberi, e massimamente di aranci e di olivi, che è cosa molto vaga da vedere”, e “tutti questi luoghi appresso al lato de’ l mare pieni di fruttevoli alberi e d’Aranci e di Limoni, da i quali alberi se ne cavano varii frutti”. L’Alberti non lesina apprezzamenti analoghi anche per la Valle dell’Aso, oggi celeberrimo frutteto della regione, noto in particolare per la pèsca: di questo pomo particolarmente dolce e profumato, anticamente chiamato “persica” in memoria della sua antica terra d’origine (e “persicate” erano alcune speciali confetture realizzate nei conventi), se ne ricordano molte varietà diffuse per il territorio, tra cui la “spiccialosso” di Maiolati e la “saturnia” o “tabacchiera” oggi coltivata a Montecosaro. Antonio Nebbia, che nel suo ricettario stampato a fine ‘700 Il cuoco Maceratese propone tra l’altro oltre a sorbetti ed altri dolci (tra cui una “torta di frutti” cotti nel vino) la ricetta di molta frutta impastellata e fritta (preparazione oggi del tutto desueta), illustra il calendario ottimale per l’acquisto della frutta nelle varie stagioni. Ma è la stessa tradizione orale dei proverbi, autentica “enciclopedia dei poveri”, ad elargire saperi e massime per ricordare la scansione annuale delle colture e della frutta:
“Lujo te mena / visciole, persiche [pesche] e mela”.
Il proverbio citato fa riferimento alle visciole, frutto dall’inconfondibile sapore asprigno, tradizionalmente impiegato anche per aromatizzare il vino, in un preparato di cui è conservata anche una ricetta seicentesca, assieme alla relativa “acquetta” preparata reimpiegando i frutti macerati recuperati dall’infusione dopo il filtraggio. Riguardo all’amarena va ricordata la specialità di Cantiano (per leccornie liquoristiche e conserviere), ma prima ancora, quando la tarda primavera si apre all’inizio dell’estate, la stagione della frutta è annunciata dalle ciliegie, chiamate dialettalmente “cerase”, anche in questo caso in memoria di “Kerasos”, da cui vennero importate durante l’impero romano. Prima ancora il gentile mese di maggio reca in dono un altro prelibato e delicato frutto, che secondo il mito era nutrimento costante nell’Età dell’Oro pagana e nel Paradiso Terrestre di ebrei e cristiani. Le fragole sono sempre state un frutto pregiatissimo, servito con grandissimo riguardo ed anche con una certa cura conviviale scenografica nel servirle: il grande corpus manoscritto seicentesco con le carte di casa del maceratese cardinal Bonaccorsi oltre a presentare note dettagliate su come coltivarle (“Il sito per piantar fraole vuol essere luogo fresco; le fraole devono cogliersi nella medesima matina che si mangiano conservando così il loro odore”) riportano fantasiosi modi per servirle superbamente, dalle “fraole in festone di zucchero”, alle “fraole con zucharo e neve sotto il piatto”, o “gran piatto reale di fraole aggiacciate nella sorbettiera”, oltre naturalmente ad accorgimenti di dispensa (“conserva di fragole”, “per conservar il sugo di fraole”).
In tempi più recenti la scrittrice e studiosa di letteratura italiana Guglielmina Rogante, nel suo bellissimo memoriale di suggestioni e sapori fermani Sillabario del tempo parla di “fragole dell’Ascensione”, ad abbracciare la “terra” di queste chicche coralline d’orto con il “cielo” del calendario rituale, degne ossia del giorno di maggio o giugno quando, a quaranta giorni dalla Pasqua, si celebra la salita in Alto di Gesù Cristo. In maniera laica, ma ugualmente incantevolmente poetica, uno scrittore italiano eccelso quale Cesare Pavese affermava che le prime ciliegie di maggio avevano “sapore di cielo”, come ricorda Natalia Ginzburg nel suo Lessico familiare. Questi due frutti così limitatamente stagionali e così universalmente nobili (tra i miracoli dei santi più ricorrenti vi sono apparizioni soprannaturali di panieri di ciliegie in pieno inverno) hanno nelle Marche il privilegio di essere stati effigiati da una pittrice seicentesca di origine marchigiana, Giovanna Garzoni, che nelle sue miniature dipinte su pergamena abbinò splendide porcellane orientali colme di fragole e ciliegie, con delicati e setosi fiori recisi della medesima stagione.
Tornando alla piena estate, ed alla sapienza effimera popolare dei proverbi nelle Marche si dice anche “Lujo poltrone / reca la zucca col melone”. Delle prime si può ricordare come a Jesi si favoleggiava che raggiungessero dimensioni enormi al punto che secondo un detto popolare: “A Jesi ce fa le zucche come le chiese, e se ce pioe le fa grosse come Santa Maria Nova”. Dei secondi fin dalla tradizione medievale lo si raccomanda per le mense di agosto, con la sua polpa dolcissima e rinfrescante abbinata alle fette salate di prosciutto secondo la logica medico-dietetica premoderna della teoria degli umori. Un medico ed erborista cinquecentesco, Costanzo Felici da Piobbico, ricorda del melone che “ancora la sua corteccia grossa, monda, purgata e posta in conserva e in composta”: difatti la tradizione conventuale e popolare ricorda le antiche scorze di melone confettate. Oltre alle albicocche (speciali a Sassoferrato) tra le tante varietà di susine e prugne va anche ricordato il prugnolo selvatico, con cui si faceva un liquore, un “ratafià” che tradizionalmente suggellava il brindisi finale alla firma dei contratti agrari.
Tra la frutta d’arbusto va ricordato anche quel cespuglio che come portafortuna troneggiava all’ingresso delle case coloniche: le sue bacche erano come caramelle per i bambini (anche quelli stagionati ma poco cresciuti, soprannominati perciò “giuggioloni”), e con l’arrivo dell’autunno diventavano una preparazione così dolce da divenire idiomatica e proverbiale, il brodo di giuggiole. L’estate si congeda con tanti frutti dolcissimi che si porteranno in autunno: la cornucopia da cesto di pomi freschi diventa per i mesi a venire marmellate, confetture, essiccazioni, prelibatezze speciali come il lonzino o salametto di fichi. Alcuni frutti, come mele e pere (si ricordano le rosa dei Sibillini, e le “angelica” di Serrungarina), venivano messi a conservarsi nei melari, sorta di giacigli di paglia, qualcuno ricordo posti tra le fronde degli alberi di gelso. Con le pere si facevano ghiottonerie (“marmellata di pera dura da mattina a sera”), ma anche l’abbinamento con il cacio di memoria medioevale era considerato pasto da signori; le mele erano impiegate anche per zuppe e minestre nelle case contadine, in ricette ormai disperse e vive solo nei ricordi.
di T. Lucchetti