Il biroccio marchigiano

È stato rimorchio, auto e limousine dei nostri avi. Riscoprirlo ci riporta alle tradizioni e allo stile di vita che hanno animato le nostre campagne fino a cinquant’anni fa

Perché parlare di biroccio? Nella nostra regione ancora profondamente agricola tutti sanno di cosa si tratta, molti ne avranno visti alcuni esemplari ad abbellire i giardini di agriturismi o di case di campagna, alcuni se lo ricorderanno ancora all’opera. Ma forse pochi ricordano quale strumento essenziale esso sia stato per le famiglie contadine d’un tempo. Era motivo di orgoglio, l’unico mezzo di trasporto abituale per la gente di campagna e perciò veniva usato in ogni occasione: per spostare prodotti e materiali, per le feste paesane e le occasioni solenni riguardanti la famiglia, come il trasporto della dote dalla casa paterna a quella del futuro sposo, con i pezzi più belli del corredo ben in mostra, per il trasporto dei malati fino all’ospedale e, all’occasione, anche per il carico delle munizioni e di materiale bellico pesante.

Il biroccio era costruito con legname duro e resistente (olmo, quercia, noce e acacia), aveva un cassone con due sponde laterali fisse, due tavole, anteriore e posteriore, mobili per facilitare le operazioni di carico, un assale per le ruote in ferro e la martinicchia, un sistema frenante che funzionava a mano tirando una fune che per mezzo di una leva bloccava le ruote. Fabbri e maniscalchi in opera nelle botteghe dei birocciai o carradori mettevano particolare cura nello studio del sesto e delle ruote stesse. I birocci venivano sempre esattamente bilanciati, secondo la pendenza della zona ove avrebbero dovuto essere impiegati. Alla coppia di buoi, posta ai lati del timone, aggiogata e addestrata, spettava il compito di trainare i 450 kg di peso del carro più quelli del carico. Ma l’elemento più caratteristico del biroccio marchigiano, e quello che determinava il lustro del contadino, era il modo in cui esso veniva dipinto dal maestro carradore.

Come ha ben rilevato Glauco Luchetti nel volume Il biroccio marchigiano (Firenze, Giannini, 1967) esistevano degli stilemi ben precisi ai quali i pittori di biroccio, almeno quelli della Marca centrale – corrispondente all’incirca con le zone pianeggianti e collinari della provincia di Ancona e Macerata – erano soliti conformarsi: telaio, ruote, tavola anteriore e posteriore e le fiancate dipinte quasi completamente di rosso, blu, bianco, giallo e verde secondo un modello preciso. Sulla tavola anteriore in genere veniva dipinta l’immagine di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, in quella posteriore la stella d’Italia o motivi floreali; più complesse le due tavole laterali divise sempre in tre specchi. Al centro avevano dipinto lo “stemma” della bottega birocciaia con l’indicazione, da un lato, del costruttore, con anno e luogo di fabbricazione, e dall’altra, del pittore con le medesime indicazioni.

Negli specchi laterali, in corrispondenza tra le tavole, solitamente dipingevano una ragazza con la colomba o con fiori, la pupa di biroccio che è passata a indicare ancor oggi la donna truccata in maniera appariscente, coppe con frutta o vasi di fiori, o più raramente uomini a lavoro nei campi e pastori.
Un po’ differenti le decorazioni realizzate nella zona del pesarese e dell’ascolano: nel primo caso dominano i toni freddi e le figure sono realizzate con una ricercatezza di particolari e un’attenzione allo sfondo più tipiche della pittura che della decorazione dei birocci; nella seconda invece manca completamente la figura umana, scompare persino il Sant’Antonio, e tutto è ricoperto da soli motivi floreali o geometrici.

Nella nostra regione, che custodisce gelosamente i cimeli della civiltà contadina, non poteva mancare un museo a esso completamente dedicato: se vi incuriosisce, vi aspetta a Filottrano (www.museodelbiroccio.it). 

di S. Brunori
© Photos Museo del biroccio marchigiano di Filottrano