San Vittore delle Chiuse: magiche leggende e poetica natura
Per chi desidera conoscere le meraviglie nascoste delle Marche, per chi anela allontanarsi dalla frenesia del mondo globale, proponiamo un itinerario in grado di condurlo ad immergersi a pieno nella propria interiorità, lasciandosi cullare dal canto della natura, travolgere dal cammino della storia, stupire da antichi racconti.
La località di San Vittore delle Chiuse, frazione del Comune di Genga, racchiude in sé tutte queste possibilità, viaggiando tra leggende pagane e sacralità cristiane, restando sospesi nel tempo e nello spazio alla vista dei ritrovamenti fossili e lasciandosi, poi, avvolgere dalla natura quasi intatta che verdeggia in queste zone.
E il naufragar m’è dolce in questo mare
Leopardi
Gemma tra i monti
Sontuosa e rigogliosa è la natura che contraddistingue la Gola di Frasassi, caratterizzata dalle verdi pinete, dalle multicromatiche sfaccettature delle rocce e, in questa stagione, dai fitti boschi autunnali in cui l’intenso verde si maschera di giallo, arancione e rosso ridipingendo così l’intero scenario paesaggistico. Nell’insenatura tra i monti Valmontagnana e Frasassi si erge l’Abbazia di San Vittore delle Chiuse, racchiusa e protetta, come una gemma di valore inestimabile, dall’anfiteatro naturale delle montagne. L’atmosfera di pace, serenità e armonia è palpabile e respirabile a prima vista. Poetico è l’intreccio tra sacralità artefatta e naturale, tra umanità e divinità, tra storia e attualità. Tutto sembra immutato e sovrastato dall’indicibile potenza della creazione.
Rave di Clusis
Il nome “delle Chiuse” prende origine dal corso d’acqua che nel Medioevo era denominato “rave di Clusis”, inoltre, molto probabilmente, dal fatto che l’abbazia sia interamente circondata, chiusa, tra i monti.
La natura immensa ricorda la caducità dell’uomo nel susseguirsi immancabile delle stagioni, la sua vastità maestosa rappresenta la potenza della creazione divina; pertanto il convento avvolto nell’abbraccio della sacralità ambientale, invita l’uomo a raccogliersi in meditazione e preghiera.
A simboleggiare purezza e rinascita spirituale due corsi d’acqua sulfurea, il Sentino e l’Esino, che qui si incontrano filtrando agili nella profondità delle rocce calcaree. Di fatto nell’età romana proprio qui sorgeva una stazione termale della quale, fino agli anni ‘30 del XX secolo, era possibile ammirare le testimonianze archeologiche.
“E vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti,
Sant’Agostino
ed i grandi frutti del mare, ed il lungo corso dei fiumi,
e l’immensità dell’Oceano, ed il volgere degli astri.
E si dimenticano di se medesimi”
Il percorso storico
Le origini del monastero risalgono agli ultimi anni del X secolo. Fu eretto dai Longobardi, signori rurali del luogo e fu dedicato a San Benedetto, Santa Maria e San Vittore. Per secoli il convento fu vissuto soprattutto dai benedettini dediti alla preghiera e alla lavorazione della terra, delle campagne e dei borghi limitrofi. I feudatari, invece, si riservarono il giurispatronato del complesso monastico. All’inizio del XIII secolo il convento raggiunse il periodo di maggior splendore, esercitando la sua giurisdizione su 42 chiese e su vasti beni e territori. La sua decadenza iniziò durante il governo dell’abate simoniaco e mondano Crescenzio figlio di Alberghetto I Chiavelli (1308-1348). Nel XV secolo il convento venne soppresso e aggregato al Monastero di S. Caterina di Fabriano.
Musicalità architettonica
Il monastero è un vero e proprio gioiello dell’architettura romanica, costruito in pietra calcarea bianca e rosata. Il geometrismo armonico della chiesa nasce dalla musicalità della sua semplice edificazione caratterizzata da una pianta a croce greca, d’influenza bizantina; nel quadrato centrale s’innalza con slancio una cupola con tiburio ottagonale. L’eleganza ritmica interna è segnata dalle quattro colonne, sormontate da capitelli cubici, che dividono il convento in nove campate sovrastate da volte a crociera. Il perimetro è adornato da cinque absidi semicircolari. Al suo esterno sulla semplice facciata paleocristiana si erge una torre cilindrica bassa ed un alto torrione quadrangolare che rendono la struttura simile ad una fortezza, pura e sicura. A destra della facciata si possono osservare i resti dell’antico monastero, oggi allestiti a museo naturalistico, speleologico e archeologico.
Armonica e suggestiva nella sua immediatezza l’abbazia funge da legame tra uomo, natura e divinità. Il senso di infinità divina può essere anche letto in un simbolo evidente alla sinistra dell’altare. Si tratta di un otto che, rovesciato, diviene il simbolo dell’infinito. Le sue origini e le sue significazioni aleggiano nel mistero e conducono l’uomo a volgere lo sguardo oltre la finitezza delle cose.
La Grotta dell’Infinito o Grotta della Capra
Visitando questo luogo sacro e magico è possibile godere sia della sorprendente maestosità della natura, sia delle opere umane altrettanto spettacolari, come il ponte romano sul Sentino, e la minuta torre d’epoca medioevale. Da qui, inoltre, si può già intravedere una struttura gotica, la Badia di San Vittore, luogo immerso in leggende e magie.
La leggenda popolare marchigiana così narra:
«Vivevano presso la Badia di San Vittore due bellissimi giovani, perdutamente innamorati. Nonostante li unisse la comunione di un grande amore, le rispettive famiglie, avversate da profonda ostilità, impedirono con ogni mezzo il loro matrimonio.
Disperati per questa situazione senza possibile soluzione, abbandonarono le abitazioni e, imprecando contro la propria parentela, fuggirono sul Monte della Valle per rimanere nella selva buia. Cauti e prudenti come due capretti inseguiti, vagarono nel bosco il giorno e la notte successiva, vinti e compiaciuti dalla passione d’amore. Infine, presso un macigno, scoprirono una grotta e sembrava che tutta la valle palpitasse di allegria per la loro felicità. Sarebbero rimasti in questo luogo segreto per lungo tempo, con i loro bambini, fra le ginestre e il gregge. Una sera d’inverno, nell’ora del tramonto, la giovane, recatasi per una non precisata necessità all’interno della Grotta, svenne e riavutasi cercò di liberarsi ma, per uno strano sortilegio, acquistò le sembianze di una capra. In tutte le sporgenze nacquero caprifichi che ella dilaniò con gli zoccoli e con il muso. A voce bassa disse al giovane che una forza diabolica l’aveva ridotta in quello stato e da quel momento non parlò più scomparendo per sempre nel sotterraneo, convertita in fantasma.
Il giovane, esterrefatto, ricercò la propria amata per tre giorni e per tre notti fino a che l’invase la più triste amarezza e non potendosi dare pace per l’accaduto si adirò, corse come un toro infuriato, bruciò la selva fino a che si fermò presso l’antro battendo le tempie sulla pietra. Anch’egli fu colpito da sortilegio, cambiò colore e divenne un masso disposto a guardia della grotta. Nell’aria maligna, pesante come una maledizione, sibilò il vento, sogghignarono le forze del male.
In quel medesimo luogo, ogni sera, quando il sole discende dietro i monti e la valle si addormenta, una capra esce dalla fenditura e un grido lacera l’aria facendo tremare i pioppi del fiume e le querce della montagna. La Grotta dell’infinito viene per questo chiamata anche la “Grotta della Capra”».
La grotta dell’infinito o grotta della Capra si trova a poca distanza dall’Abbazia di San Vittore, si apre sul versante orientale del monte Vallemontagnana. Il suo nome deriva dall’andamento labirintico della cavità. Due le sali principali: la sala del guano, ricorda come un tempo questa grotta fosse soprattutto tana di volatili che ancora oggi tendono ad abitare questo luogo, e la sala del lago che si affaccia e termina su uno specchio d’acqua.
di P. Donatiello