Semplicemente donne e mestieri
Un viaggio dentro le Marche alla riscoperta dei mestieri delle donne di un tempo. Mestieri legati principalmente alla manualità.
Una manualità che le modificazioni sociali hanno radicalmente scardinato lasciando tracce della loro esistenza. Nelle mani delle donne di allora “arte” oltre che laboriosità, componente significativa anche sul piano economico oltre che storico.
Il nostro viaggio si sofferma su alcuni particolari lavori e alcune relative personalità. L’unico grande scopo è fissare il ricordo della memoria.
La filandara
Da Fossombrone ad Ascoli Piceno passando per Jesi e Filottrano, le Marche, tra l’’800 e il ‘900, vantavano l’affermarsi della torcitura della seta diventando la terza regione per polo produttivo dopo Piemonte e Lombardia. Erano gli anni in cui soprattutto Jesi concentrava su di sé la maggior parte della produzione: non a caso veniva chiamata la “piccola Milano delle Marche”.
Storicamente la filanda era una grande risorsa, perché dava lavoro a tante donne. Le stesse cercavano un’indipendenza economica tutta loro. Lavoravano tanto e guadagnavano molto poco. In questo settore ben oltre il 90% dei lavoratori erano donne, molte delle quali lavoratrici bambine con meno di 12 anni. Non c’erano uomini, l’unico era il direttore. Il lavoro principalmente consisteva nel lavorare il baco da seta. Vestite solitamente con un grembiule blu e una mascherina alla bocca, le operaie della filanda lavavano i bozzoli di seta in acqua molto calda e non appena eliminato il baco dal suo interno, il bozzolo lo attaccavano ad una estremità alla macchina della filatura che ne lavorava il filo. La bravura stava nel mantenere sempre lo stesso spessore. Chi sbagliava a fare il proprio lavoro, pagava una multa che veniva detratta dalla paga. La seta veniva ammucchiata in matasse e poi inscatolata per essere spedita alle grandi industrie tessili. Chi ha lavorato nel settore della seta, sostiene che era “il calvario delle femmine”. Gli orari erano massacranti. Di solito c’era il suono di una sirena a scandire l’inizio e la fine dell’orario di lavoro che tra mattino e pomeriggio non era mai sotto le dodici ore e serviva anche da orologio. Anche l’ambiente di lavoro era veramente precario. Nella filanda c’era infatti sempre una nebbia. Il vapore delle lavorazioni si condensava tutto verso l’alto e dal soffitto durante il giorno gocciolava sopra le donne che così lavoravano sempre bagnate. Non a caso ci si ammalava facilmente di tubercolosi. Il continuo contatto con l’acqua bollente sbiancava le mani delle operaie e raggrinziva la pelle. Era un lavoraccio, ma per mogli e figlie di operai e artigiani, la massima aspirazione era quella di essere assunte come operaie alla filanda. “Fo ‘a filandràra”, dicevano con orgoglio e soddisfazione.
La tessitrice
“Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
da A Silvia – G. Leopardi
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.”
Una brava tessitrice aveva un gesto solenne, un movimento mirato e fantasia nel disegnare.
Il telaio è apparso, nella storia della donna tessitrice, tremila anni avanti Cristo e da sempre le ha fornito grandi soddisfazioni nel filare, ordire e tessere.
Sicuramente ci sarà ancora una nonna che ricorderà il piacere che provava nel tessere quando dopo lo sfaccendare quotidiano si sedeva al telaio, sempre pronto, e tocco su tocco l’intreccio magico dei fili faceva crescere la tela. Un lavoro che disimpegnava la testa e nutriva la creatività tra disegni e colori.
L’arte del tessere sin dalla notte dei tempi è stata arte femminile per eccellenza praticata al chiuso nella propria casa. Vi si approcciava sin da piccoli. Nelle famiglie, donne, ragazze e bambine nella quiete delle loro dimore raggomitolavano, filavano e tessevano per il fabbisogno familiare e la preparazione del corredo nuziale. Si lavorava cantando accompagnati dal suono del telaio che diveniva uno straordinario strumento che coinvolgeva le mani, i piedi e la creatività dei “tocchi” della tessitrice capace di trasformare il cotanto ritmico movimento in musica.
A monte una ricerca meticolosa delle fibre e degli intrecci, a seconda se erano creazioni artistiche come gli arazzi o se erano tessuti per abbigliamento e accessori. Il prodotto che se ne ricavava aveva la peculiarità di essere unico, irripetibile, senza equivalenti sul mercato.
Nel nostro territorio questa attività si è concentrata maggiormente nel territorio maceratese.
La coronara
“Quando la preghiera diventa arte”.
Legato alla devozione e alla pietà popolare, il mestiere di confezionare le corone del rosaio era prerogativa della laboriosità della città mariana lauretana. La coronara era la donna che infilava, a mano, i rosari. Già nel ‘700 li componeva pezzo per pezzo e con mani abili e delicate, dava vita a questo oggetto destinato a diventare, attraverso la preghiera, il tramite fra terreno e divino. I rosari da sempre rappresentano un connubio importante tra arte e fede e dimostrano come da un momento intimo possa nascere una cultura profonda capace di ispirare autentiche creazioni e contribuire così anche all’economia quotidiana di una comunità. Per anni le coronare hanno abitato gli usci delle porte di Loreto, sono diventate parte attiva di una cittadina devota al culto di Maria, hanno gettato il seme di una vera e propria economia legata alla realizzazione di oggetti sacri. Il prodotto lauretano è leader mondiale. Un prodotto che colpisce non solo per la qualità e preziosità complessa del risultato, ma anche perché riesce a far bene intuire la laboriosità, la passione e l’esperienza del tanto lavoro artigianale che c’è dietro, che diviene esso stesso preghiera. Oggi questo lavoro trae ancora origini dalla sapiente opera artigianale coniugandosi con le moderne tecnologie innovative divenendo ricostruzione vivente del lavoro delle “coronare”, dal cuore delle Marche, nel cuore del mondo.
La merlettaia
Non è possibile conoscere con certezza quando e come il merletto a tombolo fu introdotto ad Offida. Sembra infatti che fu per opera ed intraprendenza delle monache benedettine che arrivarono qui nel 1644. La musica da allora non fu mai interrotta. Questo borgo di cinquemila anime nell’entroterra marchigiano, a venti minuti dal mare, oggi è “la città del merletto a tombolo”.
Nel ‘600 la lavorazione del merletto era una fiorente attività artigianale e fonte di sostentamento per le famiglie del luogo. La lavorazione del merletto nel tempo migliorò in qualità e raffinatezza così che il manufatto fu ricercato ed esportato dai mercanti di allora. Furono in particolar modo le donne che seppero recepire questa nuova forma lavorativa, vedendo in essa un’ulteriore fonte di guadagno, la possibilità di esprimere le loro capacità creative e la soddisfazione per un’attività bella ed appagante, che potevano liberamente svolgere in casa o nelle vie del paese, in compagnia di amiche e vicine. Si tratta della lavorazione manuale di un pizzo lavorato su un cartoncino fissato con degli spilli ad un cuscino riempito di segatura che in dialetto offidano viene chiamato “capezzal”, mentre per la realizzazione della trama ci si serve dell’ausilio di fuselli di legno (da sette a diciassette coppie) attorno ai quali viene avvolto il filo. Il sapiente intreccio realizza il prezioso lavoro.
Nel 1910 venne istituita la prima scuola di merletto all’interno della scuola comunale, con lezioni tenute dall’insegnante Marina Marinucci.
Oggi l’arte del “merletto al tombolo” si candida a patrimonio immateriale dell’Unesco.
La sarta
Un mestiere antico quello della sarta (o del sarto) ma anche sempre nuovo.
Era previsto un periodo di apprendistato in bottega durante il quale la “sartoretta” faceva praticantato per diventare futura sarta. Qui le giovani avevamo modo di imparare i primi rudimenti del mestiere facendo un po’ di tutto. Si iniziava con il soprammano, si proseguiva con le imbastiture e con il punto lento. A quel punto era la sarta che “metteva su” meticolosamente il vestito, cioè completava la confezione e lo passava a macchina. Si toglievano poi le imbastiture, le spille e tutto il resto. Solo in seguito si imparava a fare gli orli e i sottopunti.
Proprio nelle grigie e fredde giornate invernali, si aveva la massima unità lavorativa. In genere tutte le donne erano radunate in una grande sala, dove in mezzo campeggiava un lungo e largo tavolo. Questo serviva per stendere il panno, segnarlo con il gessetto e poi tagliarlo. Normalmente l’operazione del taglio, “un taglio a occhio” come si diceva all’epoca, veniva fatta sempre dalla sarta o da qualche esperta sotto la sua stretta osservazione.
Di norma si imparava il lavoro guardando, carpendo i segreti facendo attenzione alle varie successioni di confezionamento. Alla fine, quando qualcuna aveva acquisito una certa padronanza dell’arte, allora poteva perfezionarsi e passare al taglio, che rimaneva l’apice dell’apprendimento. Disegnare, modificare, riparare, cucire, confezionare. Erano queste alcune delle attività che la sarta doveva essere in grado di fare nell’arco della sua giornata lavorativa.
C’era molta concorrenza e una certa rivalità tra le sarte del paese.
Alcune sarte si specializzavano nella sartoria maschile, altre in quella femminile.
Di fatto tutte svolgevano un lavoro che richiedeva pazienza, manualità, creatività, fantasia e …anche ideali. Una professionalità che è tutt’ora attuale e irrinunciabile oggi come allora.
La filatrice e magliaia
Due mestieri di famiglia che si sono sviluppati nei primi del ‘900 e nel dopoguerra. Un lavoro domestico eseguito con attrezzi semplici e rudimentali o organizzato con macchinari in veri e propri laboratori.
Nell’immediato dopoguerra la bruttezza della guerra aveva infatti denudato le persone e occorreva rifare il guardaroba. Dalle mutante alle sottovesti, alle maglie, ai vestiti.
Alzi la mano chi non ha trovato nei cassetti di un vecchio comò foto di nonne o zie sedute a filare d’inverno al caldo del camino o del braciere, d’estate davanti all’uscio della propria abitazione, che sferruzzavano per realizzare maglioni, scarpette di lana, scialli, calze e biancheria intima per neonati e adulti.
Dopo aver fatto le faccende di casa o di ritorno dai campi, un po’ per svago un po’ per dovere, le solerti filatrici prima cardavano le fibre vegetali (cotone, lino, canapa) trasformandole in filo e poi con l’ausilio di conocchia e fuso le lavoravano. La matassa, a volte, veniva anche recuperata dai vecchi capi, raggomitolata o messa a stendere sull’aspo per poi essere pronta al nuovo utilizzo.
La Vergara
Colonna portante multitasking della tradizionale famiglia marchigiana. La donna di casa, la massaia deus ex machina della cucina, centro nevralgico delle attività domestiche e agricole. Matriarca che di solito si caricava dell’incombenza e pesava e dosava la farina con la stessa cura dell’orafo: ogni granello lo considerava un prezioso dono di Dio.
Figlia di contadini lavorava nei campi, si prendeva cura degli animali da cortile, delle stalle, dei figli, dei nipoti, della casa e della cucina, e ancora puliva, ricamava e rammendava. La sua crescita culturale arrivava di solito alla quinta elementare, si perché le donne che andavano oltre le elementari erano poche ed erano tutte di paese o di città. La sua iniziazione al divenire vergara, avveniva sin dalla sua giovane età. A sette anni portava l’acqua fresca a chi lavorava nei campi in una brocca di terracotta. Andando avanti con gli anni legava i covoni dopo la mietitura e ancora più avanti, finita la scuola, il suo saper fare si arricchiva andando al convento dalle suore ad imparare l’arte del ricamo mentre a casa vicino alla propria mamma apprendeva come fare l’uncinetto e la maglia. D’estate diventava parte integrante della forza lavoro famigliare nei campi. La domenica andava a messa e la piazza diventava luogo di incontro sociale e occasione per coltivare gli amori. Altre occasioni per relazionarsi erano le festività, la trebbiatura, la scanafogliatura delle pannocchie di granoturco. C’era tanta convivialità tra le persone spossate ma allegre. Il rapporto umano era il fulcro di ogni attività, di ogni pensiero. Essere solidali non richiedeva grandi sforzi, era una pratica quotidiana, naturale. In una parola si era felici.