Shel Shapiro e le Marche
Norman David Shapiro, in arte Shel, nasce nel 1946 a Londra da una famiglia di musicisti. Mancata la carriera di chirurgo scopre o forse insegue, più o meno consapevolmente, la musica come vettore di cambiamento.
Diventa subito star della musica beat italiana e negli anni ’60 approda nelle Marche lavorando con la Eko, ma anche costruendo amicizie che ricorda con entusiasmo ancora oggi.
Legato alle Marche, dove ha trascorso molto tempo, ha regalato anche tutta la sua esperienza di direttore artistico, ideando il festival Recanati Forever che anima per molti anni l’estate marchigiana tra il 2003 e il 2009 e porta sul palco di Piazza Leopardi molti grandi artisti della musica e dello spettacolo.
Negli anni ’70 e ’80 è autore per Mina, Patty Pravo, Ornella Vanoni, Gianni Morandi, Mia Martini e produttore di Riccardo Cocciante, Rino Gaetano, Enrico Ruggeri e i Musicanova.
Memorabili le canzoni che ha scritto per Patty Pravo “Non ti bastavo più”, per Mia Martini “Quante volte”, per Ornella Vanoni “Stupidi”, per Mina “E poi” e “Giorni”.
Sul palco e in TV è stato il frontman del gruppo inglese “Rokes” che ha segnato il beat italiano con le canzoni “C’è una strana espressione nei tuoi occhi”, “Che colpa abbiamo noi”, “È la pioggia che va”, “Bisogna saper perdere”.
Come solista nella sua carriera c’è anche il recital tratto dal libro Edmondo Berselli, “Sarà una bella società”, nel quale si narrano le speranze e le illusioni dei giovani con l’aiuto delle musiche che hanno contrassegnato un’epoca gloriosa.
Il suo ultimo singolo dal titolo “Non dipende da Dio” è anche il nome del nuovo album dell’instancabile pioniere del rock in Italia.
Quando e come hai deciso di iniziare a suonare per diventare il nuovo “apostolo del rock”?
Nella mia famiglia c’è sempre stata molta musica. I miei zii e mio nonno erano musicisti, quindi in qualche modo la musica era presente. Mio cugino era una delle voci bianche del coro dell’Abbazia di Westminster. Io ero la pecora nera. Prima ho iniziato con il pianoforte, poi il mio papà mi ha regalato una chitarra e ho creduto subito di essere Elvis Presley:
lo Imitavo davanti allo specchio.
Ricordi la prima volta che sei arrivato nelle Marche?
Il primo ricordo delle Marche è quando Oliviero Pigini, titolare della Eko, ci aveva invitati per parlare di lavoro e di chitarre. Ci mandò i biglietti aerei e siamo andati a casa di Oliviero e di sua moglie. Bellissimi i vicoli di Recanati!
Ricordo la fabbrica della Eko che per un giovane chitarrista di 22-23 anni, averla a disposizione, è una delle libidini più grandi che può avere.
Sei sempre stato e continui ad essere inguaribilmente controcorrente.
Non è stato strano approdare e lavorare nelle Marche che è controcorrente a modo suo, ma decisamente molto abbottonata verso ogni cambiamento?
Io non credo di essere stato controcorrente, secondo me erano tutti gli altri che lo erano!
Io andavo dritto! Nelle Marche ho trovato sempre grande amicizia e grande capacità di sognare. Oliviero, per esempio, era un visionario, aveva una visione di futuro, direi futuribile. Ci fece arrivare gli amplificatori da Los Angeles, che avevamo noi, i Beatles e i Rolling Stones e ci dedicò il nostro modello di chitarra chiamato “Le Frecce”. Viaggiavamo su un camion con scritto Eko con tutte le chitarre.
Oliviero era molto all’americana come marketing e come impostazione, quando l’Italia era ancora il classico paesino di campagna.
Oliviero era 10 anni più avanti e quelli che lavoravano con lui li ho trovati veloci nel provare a cambiare la consuetudine. I ragazzi in fabbrica e i liutai era gente perfetta che ha fatto del tutto per aiutarci.
Le Marche, dal punto di vista produttivo, avevano già delle grandi fabbriche che producevano apparecchi d’illuminazione, calzature e tutta quella innovazione configurabile sul territorio marchigiano.
Chi era e che rapporto c’era tra te e Oliviero Pigini, visionario, imprenditore che ha portato la chitarra in ogni casa italiana e ha lavorato credendo molto in voi “capelloni”?
Sembrava come se uno aspettasse l’altro: noi aspettavamo lui, e lui stava aspettando un gruppo come i The Rokes. Non credo solo nella fortuna, ma quando stai inseguendo un pensiero, vai in quella direzione e quando altre persone seguono lo stesso pensiero, è inevitabile che ad un certo punto ci si incontra.
Cosa accadeva in quei bellissimi anni nelle Marche anche grazie alla tua presenza e a quella di molti artisti che frequentavano questa terra?
Alcune volte l’azienda Eko organizzava delle giornate di festa, ma erano dei momenti per celebrare il grande successo con la nostra presenza, quella dei Nomadi e altri musicisti. Ho sempre avuto rapporti fantastici con Oliviero, con suo fratello Lamberto e Giuseppe Casali. Quando nel 1987 il marchio Eko viene acquistato nuovamente da Lamberto Pigini, fratello di Oliviero, ho ripreso i contatti con loro e l’azienda.
Sono nate delle grandi amicizie, come con Stelvio Lorenzetti che dal 1987 è amministratore delegato dell’azienda.
Cosa ami di più delle Marche?
Adoro le colline: le trovo meravigliose e danno una sensazione di infinito.
Dico infinito e neanche stavo pensando a Giacomo Leopardi.
Ho fatto delle gite in questo territorio e trovo che le Marche sia un posto bellissimo.
Accetto le costruzioni moderne e di design, ma quando penso alle Marche immagino di essere seduto intorno ad un camino, una sensazione di casa, di casa vera!
Cosa ti piacerebbe realizzare oggi nelle Marche o più in generale per l’Italia?
Non ho sogni nel cassetto, perché cerco di parlare apertamente dei miei sogni senza tenerli chiusi. Per ora su questo territorio ho fatto tutto quello che volevo.
Magari domani si presenta un’opportunità e potrei rispondere a questa domanda diversamente. Naturalmente, mi piacerebbe fare dei concerti come a tutti i musicisti!
Sarei molto felice partire dalla piazza di Recanati per poi andare in tutte le parti del mondo.
Da 60 anni sogni e ti spendi per un mondo migliore forse influenzato dal grande cambio epocale sul piano economico, sociale e culturale degli anni ’60/‘70.
Oggi siamo nuovamente nel bel mezzo di un nuovo cambio epocale. Il tuo “inguaribile ottimismo di un depresso cronico” cosa ci consiglia di fare per non accusare il colpo?
Questa è una domanda complicata.
Spontaneamente mi verrebbe da dire di ascoltare quelli che hanno 30 anni.
Mi rendo comunque conto che c’è gente in gambissima di 30 anni e c’è gente rinconglionita come a 60 e 70 anni.
Però bisogna guardare molto ai ragazzi di 30 anni, i cambiamenti climatici, l’acqua e tutte quelle cose di utilità per il mondo che si tende ad alienare.
Dobbiamo ascoltare con attenzione alcuni suggerimenti che vengono da gente giovane che ha studiato questi fenomeni.
Molte cose che ho appreso da trentenne sono ancora valide, ma molte no.
Questi giovani in gamba bisognerebbe farli restare in Italia e non farli scappare dove vengono valutati molto di più.
In questo momento di grande cambiamento mondiale, prendo spunto da uno dei tuoi più celebri brani e ti chiedo: “Che colpa abbiamo noi”?
Dolente o nolente, come sempre le generazioni precedenti hanno tutte le colpe.
Noi abbiamo trasmesso una serie di cose che fanno sì che succede quello!
Quindi se è attribuibile una colpa è solo in questo senso.
Io però credo che sarebbe meglio pensare positivo.
Ad esempio: “È la pioggia che va” e il cielo che torna blu, cioè ci porta a sperare che stiamo andando verso il sereno.
Se ci dessimo da fare e se avessimo una convinzione etica e una morale interna leale, allora “È la pioggia che va” la canzone che prenderei come esempio.
Lunga vita a tutti!
di A. Carlorosi