Tradizioni e memorie di San Martino
La festa di San Martino, 11 di novembre, era una ricorrenza tradizionale, da sempre molto sentita dalla collettività, in quanto tappa cruciale nella vita sociale. La data dedicata a questo santo, protagonista assoluto del Cristianesimo e del monachesimo del Primo Medieovo, era in realtà avvertita come importante più che nel calendario liturgico nello scadenzario civile: anticamente in alcune regioni questa era la data di apertura delle nuove annate ufficiali, scolastiche ed accademiche, giudiziarie ed amministrative, ed anche di stipula dei nuovi contratti agrari (“fare San Martino” significava traslocare) e di mercati importanti nella società rurale (l’associazione goliardica con le persone tradite è nata dalla gran presenza di animali cornuti nelle compravendite di bestiame di questi giorni). Momento cruciale per le pratiche agrarie, in particolare la svinatura, questa giornata nella percezione comune marcava poi l’avvicendarsi delle stagioni: la cosiddetta “estate di San Martino” era una sorta di consolazione di un effimero ritorno d’estate, l’ultimo tepore prima dell’ingresso definitivo della stagione autunnale. Secondo credenza popolare questo barlume di bel tempo era legato ad un episodio agiografico del santo, il dono del suo mantello ad un lebbroso infreddolito (con conseguente apparizione del sole), e conciliava una breve occasione più temperata per festeggiare l’esito conclusivo del processo in cantina, un intermezzo festoso ed un’ultima occasione comandata di spensieratezza, dopo la triste e composta commemorazione dei defunti, e prima che l’Avvento aprisse un nuovo ciclo di austerità in preparazione della festosità natalizia.
Il grande protagonista in questa celebrazione tra sacro e profano era appunto il vino, tra l’altro anch’esso ricorrente nella moltitudine di miracoli riferiti al Santo. Il proverbio recita “per San Martino ogni mosto è vino” (oppure “A San Martino ogni botte è vino”).
In questa giornata si andava ad assaggiare il vino nuovo (il “vinello”) non ancora pronto, anche scambiandosi queste degustazioni sperimentali tra vicini, spillando tra le reciproche botti: c’era chi arrivava fino a sette o otto visite, accompagnate da pane, formaggio e salame. In proposito va ricordato come nel monastero di Santa Maria Maddalena a Serra de’ Conti le clarisse confezionassero nell’Ottocento delle pizze “brune”, mentre nel Montefeltro a Talamello i frati nel loro convento in prossimità di San Martino estraessero le forme di pecorino messe in alcune fosse, come attestano documenti del Settecento. Tornando agli assaggi della svinatura naturalmente le cantine che, secondo la considerazione collettiva garantivano sempre vino buono, rappresentavano una meta obbligata: si diceva che si andava “a forare la botte”. Assaggio dopo assaggio (in tanti ricordano grandi sbronze finali) nelle campagne attorno a Pergola si ricorda una canzoncina:
“Bevi bevi compagno sennò t’ammazzerò / non m’ ammazzar compagno che adesso bevrò / e dopo aver bevuto e non m’ ha fatto male / l’acqua fa male e il vino fa cantare/ e il sugo nella gresta mi fa girar la testa!”
Osti e ristoratori di una volta ricordano come fossero in particolare i vecchi, ormai sapienti di una lunga esperienza vinaria maturata in assaggi pluridecennali, ad andare nelle cantine grosse a testare il vino nuovo, che secondo il loro giudizio veniva venduto. Nelle bettole si comprava un etto di alici da mangiare, in modo da avere sete ed essere invogliati continuamente a bere. In proposito va detto come le acciughe rappresentino un rito autunnale tradizionale del Piemonte, in quanto ingrediente della bagnacauda, rituale conviviale di San Martino, nelle abbazie come nelle campagne di quel territorio. Sempre in merito ai consumi “di magro” un supremo digiunatore come San Giacomo della Marca (originario di Monteprandone) nella festa di San Martino del 1464 fu rifocillato dai frati di Assisi con pesce d’acqua dolce cucinato con spezie e noci. Ancora oggi invece alcuni “grottaroli” di Ancona celebrano San Martino al mare novembrino del Passetto, onorando con una “stoccafissata” la loro specialità cittadina.
San Martino è però anche celebrazione fastosa “di grasso” con la carne, dall’oca arrosto tradizionale nel settentrione fino a Bologna (il pennuto è legato al culto e all’agiografia di San Martino. Questo è il periodo in cui viene conciato per conserve e salumi), e nel Veneto alla trippa, pietanza questa legata alle trattorie durante le fiere di bestiame. Nelle Marche, come anche nella poesia del toscano Carducci, San Martino è giornata di cacciagione, propiziata dalla presenza nel periodo di molte prede, perché gli uccelli in migrazione verso mete lontane e calde si fermavano qui per mangiare o riposare. Anche mediante trappole con esche si prendevano tanti uccelletti che si facevano poi in umido per la polenta, o arrostiti allo spiedo, con lardo o addirittura goletta, aromatizzati con aglio, salvia ed alloro, e guarniti anche con fettine o spicchi di patate, ungendoli costantemente con una penna di pollo o oca impregnata di strutto.
A Sassoferrato con merli e tordi si preparava il sugo per condire le tagliatelle. Per la cena di San Martino ad Arcevia si ricorda la cena con carne o salsiccia alla graticola e con le castagne, altra presenza irrinunciabile ed in assoluto tradizionalmente caratteristica di questa giornata: nelle case la “boccaletta” del vino nuovo, magari ancora non maturo ma frizzante, veniva accompagnato con le caldarroste, raccolte o comperate, prima “castrate”, ossia incise in modo che durante le cottura il vapore fuoriuscisse), e poi messe ad arrostire sulla brace, ricoperte di cenere e qualche tizzone ardente, ed appena cotte lasciate a stufare ancora calde in un panno.
Nel maceratese per questa occasione le si fiammeggiava con qualche liquore casalingo o comperato, mentre a Jesi le clarisse preparavano squisiti “tartufini”, con la polpa lessata delle castagne, zucchero, cioccolata, aromi e liquori. Per l’occasione c’è chi ricorda anche il vin brulé, preparato secondo tante infinite declinazioni e variazioni popolari, ma di base arricchito con la bollitura di spicchi di mela sbucciata, e con gli aromi speziati e gentili di cannella e chiodi di garofano. C’erano anche le “brustoline”, ossia i semi di zucca tostati in pentola con il sale, ad accompagnare in quella serata, le partite a carte degli uomini e le chiacchierate delle donne, magari intente a sferruzzare in compagnia, mentre i bambini potevano stare alzati a giocare. Per qualcuno poteva anche scapparci l’occasione di ballare.
Di lì a poco il mese di novembre avrebbe chiuso le porte alla spensieratezza, le giornate si sarebbero chiuse sempre di più verso l’oscurità ed il freddo, e la fine del mese avrebbe visto l’avvio dell’avvento, periodo di morigeratezza e raccoglimento, appena illuminato nelle campagne marchigiane dal ritrovarsi all’aperto di notte, al freddo, riscaldati dai “focaracci”, accesi per la celebrazione della “Venuta”, e che secondo tradizione tracciavano nel buio la strada al volo celeste della Santa Casa fino a Loreto. Guardando il cielo, e cercando di scorgere tra squarci di nubi e qualche stella quel volo di angeli, si aspettava e ci si pregustava la serenità confortevole del Natale.
di T. Lucchetti